TeacherPod:"Una bussola per orientarsi"
ทำเครื่องหมายทั้งหมดว่า (ยังไม่ได้)เล่น…
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"Davvero questi nativi digitali sono diversi dagli altri figli e figlie di altre epoche? Oppure è il ruolo di noi genitori a essere in crisi e siamo noi che dobbiamo imparare di nuovo a essere genitori"?
Questa domanda poneva Manuela Mimosa Ravasio tre anni addietro ( 10 giugno 2015 ) a Pier Cesare Rivoltella, ecco qui l’intervista integrale.
Lei ha parlato spesso di consapevolezza digitale, appellandosi all’esigenza di educare, ancor prima dei ragazzi, i genitori. È vero?
Certo, ma oggi il grosso problema è che il genitore è in difficoltà a educare a prescindere dai nuovi media. E invece occorre parlare, occorre avviare un dialogo su questi temi, e soprattutto occorre essere di esempio. Emblematico, in Francia, il caso di un bambino di un anno portato dal medico perché si portava la mano sempre vicino all’orecchio. I genitori erano molto preoccupati, poi il pediatra ha scoperto che lo faceva ogni volta che “parlava”. E perché? Perché vedeva i genitori che ogni volta che parlavano portavano il telefonino all’orecchio… Quindi, noi dobbiamo essere per primo consapevoli che sono le nostre pratiche a essere incisive e che i ragazzi sono circondati dai comportamenti che gli adulti tengono con le nuove tecnologie.
Questo significa che i nostri comportamenti possono anche influenzare fenomeni come il sexting?
Beh, se siamo noi stessi a postare continuamente foto private, anche dei nostri figli piccoli, se portiamo il tablet anche a tavola, se non insegniamo che i nostri affetti, la mia persona e il mio tempo sono privati e vanno “protetti”, è evidente che quando mi troverò in mano un telefono farò la stessa cosa, metterò on line pezzi del mio corpo e della mia vita…
Qual è il suggerimento allora che si può dare ai genitori di oggi? Quale la strada da intraprendere?
Bisogna tornare a ragionare di intimità e di educazione degli affetti. Non siamo stati capaci di insegnare alle nuove giovani generazioni cosa deve stare dentro e cosa fuori, mentre da social network come Instagram, piena di selfie di veline e velone, passano sempre dei parametri e dei modelli che certo non aiutano questa riflessione. D’altra parte, a questi tipi di messaggi non ci si può opporre, non si possono vietare, così l’unico intervento è ancora l’educazione, e l’educazione parte dal nostro esempio.
È bene spiegare a ragazzi e ragazze i rischi anche legali, di certi comportamenti sul web? Dal postare foto pornografiche a scrivere cose sgradevoli?
Questo tipo di informazione sui pericoli e leggi da rispettare è doverosa. Vanno informati sulle componenti giuridiche e sugli effetti legali delle condotte che vengono adottate, ma non bisogna fare del terrorismo: questo aspetto giuridico non va reso autonomo rispetto all’intervento educativo largo.
Quanto serve controllare? Chiedere la password, supervisionare le chat o l’account Facebook?
L’intervento di controllo, a parte essere difficile, spesso è poco efficace. È mio parere che sia sbagliato a prescindere, anche perché, anche se lo si ottenesse, molto probabilmente l’adolescente sarebbe in grado di costruirsi un altro profilo da un’altra parte. Molti infatti concedono l’amicizia ai genitori si FB, salvo poi avere il loro profili veri da un’altra parte. Lo stesso vale per il filtro alla televisione o al telefonino: nel gruppo dei pari troveranno sempre dei devices non protetti! Il controllo serve quindi più a sedare la nostra ansia, ma non produce effetti.
Non resta che rimetterci a educare quindi…
Certo. Il che, molto spesso, comporta anche frustrazione perché, nel farlo, ci rendiamo conto delle nostre inadeguatezze. Ma l’unica strada, è davvero quella di insegnare a sviluppare responsabilità e senso critico. Responsabilità perché devono capire che quando postano foto o commenti questo avrà delle conseguenze durature sulla loro vita. Senso critico perché devono essere in grado di recepire con consapevolezza e autonomia di pensiero le immagini da cui sono bombardati. Sia on...
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Questa domanda poneva Manuela Mimosa Ravasio tre anni addietro ( 10 giugno 2015 ) a Pier Cesare Rivoltella, ecco qui l’intervista integrale.
Lei ha parlato spesso di consapevolezza digitale, appellandosi all’esigenza di educare, ancor prima dei ragazzi, i genitori. È vero?
Certo, ma oggi il grosso problema è che il genitore è in difficoltà a educare a prescindere dai nuovi media. E invece occorre parlare, occorre avviare un dialogo su questi temi, e soprattutto occorre essere di esempio. Emblematico, in Francia, il caso di un bambino di un anno portato dal medico perché si portava la mano sempre vicino all’orecchio. I genitori erano molto preoccupati, poi il pediatra ha scoperto che lo faceva ogni volta che “parlava”. E perché? Perché vedeva i genitori che ogni volta che parlavano portavano il telefonino all’orecchio… Quindi, noi dobbiamo essere per primo consapevoli che sono le nostre pratiche a essere incisive e che i ragazzi sono circondati dai comportamenti che gli adulti tengono con le nuove tecnologie.
Questo significa che i nostri comportamenti possono anche influenzare fenomeni come il sexting?
Beh, se siamo noi stessi a postare continuamente foto private, anche dei nostri figli piccoli, se portiamo il tablet anche a tavola, se non insegniamo che i nostri affetti, la mia persona e il mio tempo sono privati e vanno “protetti”, è evidente che quando mi troverò in mano un telefono farò la stessa cosa, metterò on line pezzi del mio corpo e della mia vita…
Qual è il suggerimento allora che si può dare ai genitori di oggi? Quale la strada da intraprendere?
Bisogna tornare a ragionare di intimità e di educazione degli affetti. Non siamo stati capaci di insegnare alle nuove giovani generazioni cosa deve stare dentro e cosa fuori, mentre da social network come Instagram, piena di selfie di veline e velone, passano sempre dei parametri e dei modelli che certo non aiutano questa riflessione. D’altra parte, a questi tipi di messaggi non ci si può opporre, non si possono vietare, così l’unico intervento è ancora l’educazione, e l’educazione parte dal nostro esempio.
È bene spiegare a ragazzi e ragazze i rischi anche legali, di certi comportamenti sul web? Dal postare foto pornografiche a scrivere cose sgradevoli?
Questo tipo di informazione sui pericoli e leggi da rispettare è doverosa. Vanno informati sulle componenti giuridiche e sugli effetti legali delle condotte che vengono adottate, ma non bisogna fare del terrorismo: questo aspetto giuridico non va reso autonomo rispetto all’intervento educativo largo.
Quanto serve controllare? Chiedere la password, supervisionare le chat o l’account Facebook?
L’intervento di controllo, a parte essere difficile, spesso è poco efficace. È mio parere che sia sbagliato a prescindere, anche perché, anche se lo si ottenesse, molto probabilmente l’adolescente sarebbe in grado di costruirsi un altro profilo da un’altra parte. Molti infatti concedono l’amicizia ai genitori si FB, salvo poi avere il loro profili veri da un’altra parte. Lo stesso vale per il filtro alla televisione o al telefonino: nel gruppo dei pari troveranno sempre dei devices non protetti! Il controllo serve quindi più a sedare la nostra ansia, ma non produce effetti.
Non resta che rimetterci a educare quindi…
Certo. Il che, molto spesso, comporta anche frustrazione perché, nel farlo, ci rendiamo conto delle nostre inadeguatezze. Ma l’unica strada, è davvero quella di insegnare a sviluppare responsabilità e senso critico. Responsabilità perché devono capire che quando postano foto o commenti questo avrà delle conseguenze durature sulla loro vita. Senso critico perché devono essere in grado di recepire con consapevolezza e autonomia di pensiero le immagini da cui sono bombardati. Sia on...
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